(pubblicato su www.mtvbrandnew.it)
dice un noto critico musicale inglese che la categoria dei recensori britannici non è obbligata per contratto a santificare e a ‘pompare’ di sane e robuste iniezioni di hype qualsiasi Avvento che la scena (in particolare indie e pop) UK quotidianamente propone: è che a quelle latitudini le cose vanno un po’ così. e allora capita che basti un pizzico di MySpace, un terzo di filesharing, due belle cucchiaiate di auto-produzione (magari fatta nella propria cameretta, con un pc e un discreto programma di editing audio) e una buona shakerata di quanto di meglio gli anni Ottanta e Novanta hanno saputo produrre – ma non fatto recepire a dovere – per titillare le attenzioni della stampa di settore. nel variegato ed ipertrofico menu musicale tra cui i navigati chef di NME & co. possono scegliere poi basterà poco per trovare la pietanza giusta e sufficientemente spicy (tranquilli, non stiamo parlando di girl band) da proporre urbi et orbi ai vogliosi palati del resto del mondo. a noi poveri mortali alla periferia dell’impero non resta quindi che un atto di fede. provare in fondo non costa nulla e anzi, parafrasando un verso dei “The Big Pink”, potremmo dire: these gigs fall like dominos… e ora spiegheremo anche perché.
al momento in cui scriviamo questo duo originario di Londra, che prende il nome da un disco dei “The Band”, non è ancora conosciutissimo in Italia, mentre tra i sudditi di Sua Maestà è già un piccolo caso che da fenomeno di nicchia a breve potrebbe essere sdoganato nell’Olimpo del mainstream. i ragazzi in questione (Robbie Furze e Milo Condrell) sono due polistrumentisti, amici di vecchia data, con alle spalle già importanti esperienze – il primo è stato chitarrista di Alec Empire mentre il secondo, figlio di un noto produttore, aveva dato vita alla Merok Records, facendoci conoscere gente come i “Crystal Castles” ed i “Klaxons” – che da soli hanno prodotto questo disco d’esordio, registrato a New York con l’aiuto di chi ha lavorato anche per i “Glasvegas”: Furze canta e suona la chitarra, Cordell invece si occupa di tastiere e sintetizzatori, coadiuvati di volta in volta da altri musicisti e vocalist, tra cui Jo Apps, sorella del più noto Patrick Wolf.
unite le forze nel 2007, dopo una serie di singoli di discreto successo e incassata la nomina a ‘best new act’ agli ultimi “NME Shockwave Awards”, il passo verso l’esordio discografico è stato breve e abbastanza repentino, come oramai siamo abituati da un po’ di tempo. ad un primo ascolto è inevitabile un parallelo con gruppi quali “My Bloody Valentine” e gli “Stone Roses”, anche se i tributi al passato – e al presente – non si fermano qui. e non sempre ciò è un male. si, perché già ad un primo ascolto A Brief History Of Love si mostra solido e allo stesso tempo interessante come raramente ci si aspetterebbe da due ragazzi che pressappoco immaginiamo chiusi nel loro piccolo studio, con tanto pc e poca luce, a sognare di cambiare le sorti della musica. il biglietto da visita recita ‘rock elettronico, shoegaze, noise-pop’ e la definizione non va molto lontana dalla realtà dei fatti perché ABHOL è un riuscito (seppur non originalissimo) mix di chitarre distorte, synth sporchi, muri del suono a volte eccessivamente noisy (si ascolti Too young to love, il primo singolo pubblicato) ma che viaggiano al limine tra il frastuono furbamente riverberato e l’inno da stadio (At war with the sun e l’ultimo singolo Dominos, ad orecchio e croce il più commerciale, oltre quello che in questo momento fatica ad uscirci dalla testa: cori e coretti ripetuti come mantra qui non mancano, rimandandoci appunto ai “Glasvegas” e anche al cantato del leader dei “Black Rebel Motorcycle Club”).
nonostante queste premesse, per stessa ammissione dei due, ABHOL sostanzialmente parla dell’amore esaminandolo nei suoi vari aspetti (le ragazze, le rotture, il sesso, l’auto-commiserazione depressiva tipica dell’adolescente) e momenti di sconforto, esaltazione, ironia e rabbia: undici tracce che vanno dalle ballate, forse i momenti meno riusciti del disco (si prenda Love in vain, un amore che è finito, dove Furze canta, in un impeto emo-disperato, robe del tipo “if you really love him, tell me that you love him again”, e che fa il paio con il poco ottimistico “we’re better off dead” dell’ultimo brano), alle tracce che non disdegneresti di ballare (Too young to love) a quelle invece da ascoltare a tutto volume. è il caso del brano di apertura, Crystal visions, manifesto programmatico oltre che uno dei due-tre momenti migliori dell’intero disco: epica apertura costruita sul muro del suono di cui sopra, un crescendo martellante dalla lunghissima intro e dagli echi monumentali che rimangono anche dopo che si è arrivati alla fine delle undici tracce.
at war with the sun brilla invece per solarità, privilegiando per un momento la melodia come nella title-track A brief history of love – controcanto femminile e andamento rilassato, a dispetto del resto: più ombrosa, pessimistica, volutamente intimista (per quanto ci possa essere di intimista in questo terrorismo sonoro che a voler parlare di una cosa tanto delicata quanto l’amore rischia di essere quasi anti-romantico, ma per fortuna non lo è mai, NdR) la canzone successiva, Velvet, è a nostro giudizio la migliore di ABHOL: a differenza dell’altra ballad e nonostante non spicchi per originalità (“I found her in a dream, looking for me”) riesce ad essere quasi straziante ed a toccare le più intime corde, violentando con la solita rumorosa maliconia. potenziale outsider, Tonight: dopo tanto magone ed echi dark, tira su di morale e ha un ritmo irresistibile che scommettiamo catturerà di ascolto in ascolto. certo, è probabile che, giunti alla fine, ci ritroveremo a canticchiare ancora il geniale e assoltamente senza senso (davvero?) “these girls fall like dominos, dominos, dominos”, unico limite di un disco che ha comunque i suoi alti e bassi e che, se mai verrà notato da qualche pubblicitario, finirà per essere conosciuto attraverso questo maledetto ritornello-killer, abbastanza catchy per una pubblicità di qualche compagnia telefonica.
sintetizzatori, amore, inni, chitarre distorte, anima e drum machines sono un azzardo eccessivo? non lo sappiamo, ma questa sorta di manuale fragoroso e distorto di psichedelia amorosa merita di essere ascoltato, che sia sfruttando la potenza dello stereo o solo ascoltandolo nell’intimo delle cuffie del proprio lettore mp3. ABHOL è un signor disco d’esordio e quella dei “The Big Pink” non dovrebbe essere una semplice ‘scappatella’, pardon, una breve storia d’amore.
tracklist:
1. crystal visions, 2. too young to love, 3. dominos, 4. love in vain, 5. at war with the sun, 6. velvet, 7. golden pendulum, 8. frisk, 9. a brief history of love, 10. tonight, 11. count backwards from ten
possibili outsider: tonight, a brief history of love
il verso: “she’s got lightning in her hand” (crystal visions)
rgf